IL CONSIGLIO DI STATO 
 
    Ha pronunciato la presente  ordinanza  sui  seguenti  ricorsi  in
appello: 
        1) n. 5327 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la
stessa in Roma, via  dei  Portoghesi,  12,  contro  la  signora  Elsa
Verelli, rappresentata e difesa dall'avv. Giunio Massa, con domicilio
eletto presso l'avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 
        2) n. 5542 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in
Roma, via  dei  Portoghesi,  12,  contro  il  signor  Nettuno  Morra,
rappresentato e difeso dall'avv. Giunio Massa, con  domicilio  eletto
presso l'avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 
        3) n. 5582 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la
stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro  la  signora  Caterina
Usai Mirra,  rappresentata  e  difesa  dall'avv.  Giunio  Massa,  con
domicilio eletto presso l'avv. Erica Deuringer in Roma, via  Polibio,
45; 
        4) n. 5584 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in
Roma,  via  dei  Portoghesi,  12,  contro  l'avvocato  Giunio  Massa,
rappresentato e difeso da se' medesimo, con domicilio  eletto  presso
l'avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 
        5) n. 5586 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in
Roma, via dei Portoghesi, 12, contro la signora Gigliola Di  Palermo,
rappresentata e difesa dall'avv. Giunio Massa, con  domicilio  eletto
presso l'avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 
        6) n. 5807 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la
stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,  contro  il  signor  Maurizio
Napoli, rappresentato e difeso dall'avv. Giunio Massa, con  domicilio
eletto presso l'avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 
        7) n. 5809 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la
stessa in Roma, via dei Portoghesi,  12,  contro  il  signor  Michele
Coronella, non costituito; 
        8) n. 5818 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la
stessa in Roma, via  dei  Portoghesi,  12,  contro  il  signor  Luigi
Pagano, non costituito; 
        9) n. 5821 del 2013, proposto dal Ministero della  Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge presso la
stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro  la  signora  Concetta
Trota, non costituita; 
        10) n. 7082 del 2013, proposto dal Ministero della Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in
Roma, via dei Portoghesi, 12, contro  il  signor  Vittorio  Riccardi,
rappresentato e difeso dall'avv. Giunio Massa, con  domicilio  eletto
presso l'avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 
        11) n. 7083 del 2013, proposto dal Ministero della Giustizia,
in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato presso la stessa in
Roma, via dei Portoghesi,  12,  contro  il  signor  Mario  Menicagli,
rappresentato e difeso dall'avv. Giunio Massa, con  domicilio  eletto
presso l'avv. Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 
    Per l'annullamento: 
quanto al ricorso n. 5327 del 2013: 
    della sentenza n. 83/2013 del T.A.R. del Lazio, Sezione Prima  di
Roma, depositata il 7 gennaio 2013, per l'ottemperanza  al  giudicato
formatosi  in  relazione  alla  sentenza  della  Corte   Suprema   di
Cassazione n. 23821/11 del 20 ottobre 2011; 
quanto al ricorso n. 5542 del 2013: 
    della sentenza n. 5338/2013 resa dal  T.AR.  del  Lazio,  Sezione
Prima, il 22 maggio 2013, depositata il 28 maggio 2013,  sul  ricorso
per l'esecuzione del giudicato formatosi in relazione  alla  sentenza
della Corte di Cassazione n. 9262/2012, depositata il 7 giugno  2012,
recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva  durata
del processo; 
quanto al ricorso n. 5582 del 2013: 
    della sentenza n. 4231/2013 resa dal  T.AR.  del  Lazio,  Sezione
Prima, il 10 aprile 2013, depositata il 29 aprile 2013,  sul  ricorso
per l'esecuzione del giudicato formatosi in relazione  alla  sentenza
della Corte di Cassazione n. 6174/2012, depositata il 19 aprile 2012,
recante il riconoscimento di un equo indennizzo per eccessiva  durata
del processo; 
quanto al ricorso n. 5584 del 2013: 
    della sentenza n. 5749/2013 resa dal  T.AR.  del  Lazio,  Sezione
Prima, il 22 maggio 2013, depositata il 7 giugno  2013,  sul  ricorso
per l'esecuzione (limitatamente alle spese  oggetto  di  distrazione)
del giudicato formatosi in relazione alla  sentenza  della  Corte  di
Cassazione n. 6173/2012, depositata il 19  aprile  2012,  recante  il
riconoscimento  di  un  equo  indennizzo  per  eccessiva  durata  del
processo; 
quanto al ricorso n. 5586 del 2013: 
    della sentenza n. 4019/2013 resa dal T.A.R.  del  Lazio,  Sezione
Prima,  il  10  aprile  2013,  depositata  il  22  aprile  2013,  per
l'ottemperanza al giudicato  formatosi  in  relazione  alla  sentenza
della Corte di Cassazione n. 2357/2012,  depositata  il  16  febbraio
2012, recante il riconoscimento di un equo indennizzo  per  eccessiva
durata del processo; 
quanto al ricorso n. 5807 del 2013: 
    della sentenza n. 6202/2013 del T.A.R, del Lazio,  Sezione  Prima
di  Roma,  depositata  il  20  giugno  2013,  per  l'ottemperanza  al
giudicato formatosi in relazione alla sentenza della Corte Suprema di
Cassazione n. 6169/2012 depositata in data 19 aprile 2012; 
quanto al ricorso n. 5809 del 2013: 
    della sentenza n. 4718/2013 del T.A.R. del Lazio,  Sezione  Prima
di  Roma,  depositata  il  10  maggio  2013,  per  l'ottemperanza  al
giudicato formatosi in relazione al decreto della Corte d'Appello  di
Roma n. 54711/07, depositato in data 21 giugno 2010; 
quanto al ricorso n. 5818 del 2013: 
    della sentenza n. 4739/2013 del T.A.R. del Lazio,  Sezione  Prima
di  Roma,  depositata  il  13  maggio  2013,  per  l'ottemperanza  al
giudicato formatosi in relazione al decreto della Corte d'Appello  di
Roma n. 54711/07 depositato in data 21 giugno 2010; 
quanto al ricorso n. 5821 del 2013: 
    della sentenza n. 4738/2013 del T.A.R. del Lazio,  Sezione  Prima
di  Roma,  depositata  il  13  maggio  2013,  per  l'ottemperanza  al
giudicato formatosi in relazione al decreto della Corte d'Appello  di
Roma n. 54702/07, depositato in data 22 giugno 2010; 
quanto al ricorso n. 7082 del 2013: 
    della sentenza n. 6891/2013 resa dal  T.AR.  del  Lazio,  Sezione
Prima, il 3 luglio 2013, depositata 1'11 luglio 2013, sul ricorso per
l'esecuzione del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della
Corte di Cassazione n. 3345/2012, depositata il 2 marzo 2012, recante
il riconoscimento di un equo  indennizzo  per  eccessiva  durata  del
processo; 
quanto al ricorso n. 7083 del 2013: 
    della sentenza n. 6889/2013 resa dal  T.AR.  del  Lazio,  Sezione
Prima, il 3 luglio 2013, depositata 1'11 luglio 2013, sul ricorso per
l'esecuzione del giudicato formatosi in relazione alla sentenza della
Corte di Cassazione n. 3343/2012, depositata il 2 marzo 2012, recante
il riconoscimento di un equo  indennizzo  per  eccessiva  durata  del
processo. 
    Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; 
    Visti gli atti di costituzione in  giudizio  degli  appellati  in
epigrafe indicati; 
    Viste le memorie prodotte dagli appellati costituiti  a  sostegno
delle proprie difese; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore, alla camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014,  il
Consigliere Raffaele Greco; 
    Udita l'avv. dello Stato Gabriella D'Avanzo per l'Amministrazione
appellante; 
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: 
    1. Il Ministero della  Giustizia  ha  appellato,  chiedendone  la
riforma, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha  accolto  il
ricorso proposto dalla signora Elsa  Verelli  per  l'ottemperanza  al
giudicato formatosi sulla sentenza della Corte di Cassazione  che  ha
condannato  la  detta  Amministrazione  al  pagamento  di   un   equo
indennizzo, pari a complessivi € 9.250,00, per eccessiva  durata  del
processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, oltre alle spese
e agli accessori di legge. 
    L'appello e' stato affidato ai seguenti motivi: 
        I) violazione e falsa applicazione dell'art. 6, par. 1, della
Convenzione europea  dei  diritti  dell'uomo  (CEDU),  dell'art.  117
Cost., degli artt. 2 e 3, comma 7, della legge n.  89  del  2001  (in
relazione all'avere il primo  giudice  disapplicato  la  disposizione
interna di cui ai comma 7 dell'art. 3 della citata legge n.  89/2001,
per supposto contrasto con la CEDU); 
        II) violazione e falsa applicazione dell'art. 114,  comma  4,
cod. proc.  amm.  (non  essendo  applicabile  la  penalita'  di  mora
contemplata da  detta  disposizione  ai  casi  di  inottemperanza  di
sentenze dalle quali discendano obblighi di carattere pecuniario). 
    Si e' costituita l'appellata, signora Elsa Verelli, la  quale  si
e' argomentatamente opposta all'accoglimento del gravame, concludendo
per la conferma della sentenza impugnata. 
    2. Un secondo  appello  di  analogo  tenore  il  Ministero  della
Giustizia ha proposto avverso altra sentenza del  T.A.R.  capitolino,
relativa all'ottemperanza alla sentenza  della  Corte  di  Cassazione
recante condanna al pagamento della somma complessiva  di  € 9.750,00
(oltre spese e accessori) in favore del signor Nettuno Morra,  sempre
a titolo di equo indennizzo ex legge n. 89/2001. 
    L'appello si fonda su  motivi  sostanzialmente  sovrapponibili  a
quelli  del  ricorso  di  cui  al  precedente  punto  1,   investendo
unicamente  la  parte  della   decisione   gravata   con   la   quale
all'Amministrazione e' stata comminata la penalita' di  mora  di  cui
all'art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. 
    Si e' costituito l'appellato, signor Nettuno  Morra,  opponendosi
all'accoglimento dell'appello e chiedendo la conferma della  sentenza
impugnata. 
    3. Con ulteriore appello, il Ministero della Giustizia ha gravato
altra sentenza del T.A.R. del Lazio,  di  tenore  identico  a  quello
delle sentenze gia' impugnate, recante ottemperanza alla condanna  al
pagamento della somma  complessiva  di  € 10.000,00  (oltre  spese  e
accessori) in favore della signora Caterina Usai Mitra; i motivi sono
identici a quelli dell'appello di cui al precedente punto 2. 
    Si e' costituita l'appellata,  anche  in  questo  caso  assumendo
l'infondatezza dell'impugnazione e chiedendone la reiezione. 
    4.  Con  un  quarto  appello,   fondato   su   identici   motivi,
l'Amministrazione  ha  censurato  un'ulteriore  sentenza  del  T.A.R.
capitolino, recante ottemperanza alla  condanna  al  pagamento  della
somma € 10.600,00 per equo indennizzo in  favore  del  signor  Franco
Bonomo, limitatamente alle spese  di  lite  da  distrarsi  in  favore
dell'avvocato Giunio Massa, pari a complessivi  €  2.105,00  oltre  a
spese e accessori. 
    Anche in questo giudizio l'appellato,  ritualmente  costituitosi,
ha argomentato a  sostegno  dell'infondatezza  del  gravame  e  della
conferma della sentenza impugnata. 
    5. Ancora un altro appello e' stato proposto dal Ministero  della
Giustizia, sulla scorta di motivi identici a quelli posti a  sostegno
dei precedenti ricorsi, avverso un'ulteriore sentenza del T.A.R.  del
Lazio, identica alle altre, relativa all'ottemperanza della  sentenza
di condanna in  Cassazione  alla  somma  complessiva  di  € 10.250,00
(oltre a spese e accessori) in favore della signora Gigliola Palermo. 
    La appellata si e' a sua volta costituita, chiedendo la reiezione
del gravame. 
    6. Identico iter si e' avuto in relazione a un sesto appello, col
quale il Ministero  della  Giustizia  ha  chiesto  la  riforma  della
sentenza del T.A.R. laziale relativa a ottemperanza alla condanna  al
pagamento della somma di € 9.650,00  (oltre  spese  e  accessori)  in
favore del signor Maurizio Napoli, costituitosi in resistenza. 
    7. Con un settimo appello, l'Amministrazione della  Giustizia  ha
impugnato un'altra sentenza del T.A.R. capitolino, di tenore identico
alle precedenti, con cui  e'  stata  ordinata  l'ottemperanza  di  un
decreto della Corte d'Appello di Roma recante condanna  al  pagamento
della somma € 16.000,00  in  favore  del  signor  Michele  Coronella,
sempre per equo indennizzo da eccessiva durata del processo; i motivi
di gravame sono identici a quelli degli altri appelli. 
    In questo giudizio, la parte appellata non si e' costituita. 
    8. Con ulteriore appello di identico tenore, e' stata poi gravata
la sentenza relativa all'ottemperanza ad altro  decreto  della  Corte
d'Appello  romana,  recante  condanna  alla  somma   complessiva   di
€ 16.000,00 in favore del signor Luigi Pagano,  sempre  a  titolo  di
equo indennizzo. 
    Anche in questo caso, l'appellato e' rimasto contumace. 
    9. Sempre i medesimi motivi di gravame sono alla  base  del  nono
appello in epigrafe, proposto dal Ministero della  Giustizia  avverso
un'ulteriore   sentenza   del    T.A.R.    del    Lazio,    afferente
all'ottemperanza del decreto della Corte d'Appello  di  Roma  recante
condanna al pagamento di € 16.000,00 in favore della signora Concetta
Trota.  L'appellata  si  e'  costituita,  opponendosi   con   diffuse
argomentazioni all'accoglimento del gravame. 
    10. Analogo iter si e' avuto quanto ad ulteriore appello proposto
dalla stessa Amministrazione, sempre sulla base degli  stessi  motivi
in diritto, avverso altra sentenza  del  T.A.R.  del  Lazio  relativa
all'ottemperanza della sentenza della Corte di Cassazione recante  la
condanna al pagamento  della  somma  di  € 9.750,00,  oltre  spese  e
accessori, in favore del signor Vittorio Ricciardi. 
    Anche in questo caso, l'appellato si  e'  costituito  opponendosi
all'accoglimento dell'appello. 
    11. L'ultimo degli appelli in epigrafe,  proposto  dal  Ministero
della Giustizia sulla base di identici motivi,  investe  la  sentenza
con la quale il T.A.R. del Lazio ha ordinato l'ottemperanza di  altra
sentenza della Corte di Cassazione,  recante  condanna  al  pagamento
della somma di € 9.250,00 in favore del signor Mario Menicagli. 
    Anche in questo caso, l'appellato si e' ritualmente costituito ed
ha chiesto la conferma della sentenza impugnata. 
    12. All'esito della camera  di  consiglio  del  9  gennaio  2014,
questa Sezione, riuniti gli appelli ai sensi dell'art. 70 cod.  proc.
amm., ha pronunciato sentenza parziale  (n.  462  del  2014)  con  la
quale, ritenuto di dover  prioritariamente  esaminare  il  motivo  di
appello sopra riassunto al punto 1, sub II), lo ha respinto, aderendo
al  maggioritario  indirizzo  giurisprudenziale  che   considera   la
penalita' di mora di cui all'art. 114,  comma  4,  lettera  e),  cod.
proc. amm. applicabile anche ai giudizi di  ottemperanza  relativi  a
decisioni  dalle  quali  discendano  a  carico  della  p.a.  obblighi
pecuniari. 
    La Sezione si e', invece, riservata di  provvedere  con  separata
ordinanza sull'ulteriore mezzo di  gravame,  in  relazione  al  quale
ritiene di dover sollevare questione di  legittimita'  costituzionale
ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 
    13. Per una migliore comprensione delle ragioni  che  inducono  a
tale  risoluzione,  giova  riassumere  i  termini  essenziali   delle
controversie che qui occupano. 
    Sono appellate, invero, undici  sentenze  emesse  in  altrettanti
giudizi di ottemperanza relativi a sentenze della Corte di Cassazione
ovvero a decreti della Corte di Appello  di  Roma,  con  i  quali  il
Ministero della Giustizia e' stato condannato al pagamento  di  somme
di varia entita' a titolo di equo indennizzo per eccessiva durata del
processo ai sensi della n. 89 del 2001. 
    13.1. Il Ministero  della  Giustizia  ha  appellato  le  suddette
sentenze limitatamente alla parte in cui il primo  giudice,  oltre  a
ordinare l'esecuzione della sentenza ottemperanda  e  a  nominare  un
Commissario ad  acta  per  l'eventuale  adempimento  in  sostituzione
dell'Amministrazione, ha condannato quest'ultima anche  al  pagamento
di ulteriori somme a titolo di penalita' di mora (c.d. astreinte), ai
sensi dell'art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. in  ragione
dell'ingiustificato ritardo nell'esecuzione rispetto  al  momento  in
cui sulle sentenze o sui decreti di condanna all'equo  indennizzo  si
era formato il giudicato. 
    Questo, in estrema sintesi, il percorso argomentativo del giudice
di prime cure: 
        - la legge n.  89  del  2001  (c.d.  legge  Pinto)  e'  stata
adottata dallo Stato italiano al dichiarato scopo di  predisporre  un
rimedio per la violazione del diritto  alla  ragionevole  durata  del
processo, sancito dall'art. 6, par. 1, della Convenzione europea  dei
diritti dell'uomo (CEDU), per la cui  violazione  l'Italia  risultava
aver subito molteplici  condanne  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo; 
        -  la  Corte,  pur  riconoscendo  l'adeguatezza  del  rimedio
indennitario, si e' posta il problema della reazione da prevedere per
l'ipotesi in cui le Autorita' nazionali omettano  di  ottemperare  ai
provvedimenti giudiziari che riconoscono l'equo indennizzo; 
        -  per  questo,  la  giurisprudenza  CEDU  ha  precisato  che
l'esecuzione della condanna de qua deve considerarsi parte integrante
del termine complessivo del processo, e pertanto rileva ai  fini  del
rispetto del citato art. 1, par. 6, della Convenzione  (al  riguardo,
sono state citate le sentenze della Grande  Camera,  29  marzo  2006,
Cocchiarella c. Italia e della Sez. II, 21 dicembre 2010, Gaglione c.
Italia); 
        - negli arresti  teste'  richiamati,  la  Corte  ha  ritenuto
ragionevole ammettere un termine  di  "tolleranza"  per  l'esecuzione
delle  sentenze  in  subiecta   materia,   termine   che   e'   stato
equitativamente fissato in sei mesi, decorsi i quali il  ritardo  non
e' piu' giustificabile; 
        - inoltre, la Corte ha precisato che la mancanza  di  risorse
finanziarie    non    puo'    costituire    idonea    giustificazione
all'inadempimento degli obblighi indennitari discendenti da  condanne
giurisdizionali per violazione della ragionevole durata del processo; 
        - tale quadro normativo e giurisprudenziale  impone,  secondo
il primo giudice, "un'interpretazione  restrittiva  (sostanzialmente,
la disapplicazione)" dell'art. 3, comma 7, della precitata  legge  n.
89 del 2001, secondo cui, in caso di  condanna  all'equo  indennizzo:
"... L'erogazione degli indennizzi agli aventi  diritto  avviene  nei
limiti delle risorse disponibili"; 
        -  cio'  premesso,  decidendo  sulla  domanda   delle   parti
ricorrenti di condanna dell'Amministrazione al risarcimento del danno
da ritardo mediante applicazione della penalita' di cui all'art. 114,
comma 4, lettera e), cod.  proc.  amm.,  il  T.A.R.  ha  ritenuto  di
aderire all'orientamento secondo cui tale istituto, a  differenza  di
quello similare disciplinato nel processo  civile  dall'art.  614-bis
cod. proc. amm.,  e'  applicabile  anche  alle  ipotesi  in  cui  gli
obblighi incombenti alla p.a. in  esecuzione  del  giudicato  abbiano
carattere pecuniario; 
        - conseguentemente il primo giudice ha ritenuto, da un  lato,
di non ritenere giustificabile -  in  applicazione  della  richiamata
giurisprudenza EDU -  il  perdurante  ritardo  nell'erogazione  delle
somme liquidate a titolo di equo indennizzo sulla base dell'affermata
carenza di risorse finanziarie, e, pertanto, di dover  condannare  il
Ministero della Giustizia al pagamento di somme ex art. 114, comma 4,
lettera e), cod. proc. amm. con decorrenza  dallo  scadere  dell'anzi
detto termine semestrale  dalla  data  in  cui  ciascuna  sentenza  o
decreto da ottemperare erano passati in giudicato (tanto,  sempre  in
ossequio alla giurisprudenza europea innanzi richiamata); 
        - con riguardo alla quantificazione dell'astreinte, il T.A.R.
ha infine  ritenuto  di  aderire  all'indirizzo  per  cui  questa  va
equitativamente commisurata in € 100,00  per  ogni  mese  di  ritardo
(cfr. sent. Cocchiarella, cit.). 
    13.2.   A   fronte    delle    statuizioni    cosi'    riassunte,
l'Amministrazione  ha  affidato  i  propri  appelli  a   due   motivi
fondamentali: 
        a) da un  lato,  contestando  l'applicabilita'  dell'istituto
introdotto  nel  processo  amministrativo  dall'art.  114,  comma  4,
lettera e) , cod. proc. amm.  anche  all'esecuzione  di  condanne  al
pagamento di somme di denaro; 
        b) dall'altro, tacciando  di  erroneita'  la  disapplicazione
dell'art. 3, comma 7, della  legge  n.  89  del  2001,  per  ritenuto
contrasto con l'art. 6, par. 1, come interpretato  dalla  Corte,  non
essendo tale operazione consentita al giudice  a  cagione  della  non
diretta applicabilita' delle norme CEDU nell'ordinamento italiano. 
    13.3. La prima delle anzi dette doglianze, come  gia'  accennato,
e' stata  respinta  da  questa  Sezione  con  la  ricordata  sentenza
parziale n. 462 del 2014. 
    14. Per quanto concerne la seconda censura, si ritiene  di  dover
condividere  le  argomentazioni  della  difesa  erariale  in   ordine
all'impossibilita', in caso di  ravvisato  contrasto  fra  una  norma
della CEDU e una norma interna, di  una  diretta  disapplicazione  di
quest'ultima da parte del giudice (cfr. sul punto Cons.  Stato,  sez.
IV, 13  giugno  2013,  n.  3293,  laddove  in  tal  senso  ci  si  e'
pronunciati, ad altro riguardo, proprio a proposito del rapporto  tra
la CEDU e la legge n. 89 del 2001). 
    14.1.  Quanto   sopra   discende   dalla   considerazione   della
giurisprudenza in materia della Corte  costituzionale,  la  quale  e'
gia' da tempo costante nel ritenere che le norme  della  CEDU  -  nel
significato  loro  attribuito  dalla  Corte   europea   dei   diritti
dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e
applicazione (art. 32, par. 1, della Convenzione) - integrino,  quali
"norme interposte", il parametro  costituzionale  espresso  dall'art.
117, comma 1, Cost., nella parte in cui stabilisce l'obbligo  per  la
legislazione  interna  di  rispettare  i  vincoli   derivanti   dagli
"obblighi internazionali" (cfr. sentt. 4 dicembre 2009, n. 317;  id.,
26 novembre 2009, n. 311; id., 27  febbraio  2008,  n.  39;  id.,  24
ottobre 2007, nn. 348 e 349). 
    Pertanto, in caso di ipotizzato contrasto fra una norma interna e
una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto  la
praticabilita' di una interpretazione della prima in  senso  conforme
alla Convenzione, avvalendosi di ogni  strumento  ermeneutico  a  sua
disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo - non potendo a
cio' rimediare tramite  la  semplice  non  applicazione  della  norma
interna   contrastante   -   egli   deve   denunciare   la   rilevata
incompatibilita', proponendo questione di legittimita' costituzionale
in riferimento al suindicato parametro; si e' aggiunto, poi,  che  la
Corte costituzionale, investita  dello  scrutinio,  pur  non  potendo
sindacare l'interpretazione della  CEDU  data  dalla  Corte  europea,
resta legittimata a verificare se, cosi' interpretata, la norma della
Convenzione  -  la  quale  si  colloca  pur  sempre  a   un   livello
sub-costituzionale - si ponga eventualmente in  conflitto  con  altre
norme della Costituzione:  ipotesi  eccezionale  nella  quale  dovra'
essere esclusa la idoneita' della norma convenzionale a integrare  il
parametro considerato. 
    14.2. In un piu' recente arresto (sent. 11 marzo 2011, n. 80)  la
Corte ha altresi' affrontato il problema della  perdurante  validita'
di tali conclusioni dopo l'entrata in vigore del Trattato di  Lisbona
del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge
2 agosto 2008, n. 130, che  ha  modificato  il  Trattato  sull'Unione
europea e il Trattato che istituisce la Comunita' europea. 
    In particolare, si era sostenuto che  le  innovazioni  recate  da
detto Trattato (entrato in  vigore  il  1°  dicembre  2009)  avessero
comportato un mutamento della collocazione delle  disposizioni  della
CEDU nel sistema delle fonti, tale  da  rendere  ormai  inattuale  la
ricordata concezione delle "norme interposte": alla  luce  del  nuovo
testo  dell'art.  6   del   Trattato   sull'Unione   europea,   dette
disposizioni  sarebbero  divenute  parte   integrante   del   diritto
dell'Unione, con la conseguente facolta' per i giudici comuni di  non
applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme  della
CEDU, senza dover attivare il sindacato di costituzionalita'. 
    In altri termini, anche per  la  CEDU  sarebbe  stata  valida  la
ricostruzione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno,
quali  sistemi  distinti  e  autonomi,  operata   dalla   consolidata
giurisprudenza della Corte costituzionale  sulla  base  del  disposto
dell'art. 11 Cost. (secondo cui l'Italia "consente, in condizioni  di
parita'  con  gli  altri  Stati,  alle  limitazioni   di   sovranita'
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia  fra
le Nazioni"), alla stregua della quale le norme  derivanti  da  fonte
comunitaria dovrebbero ricevere diretta applicazione nell'ordinamento
italiano pur restando estranee al sistema delle fonti interne, con la
conseguenza che, se munite di effetto  diretto,  esse  precludono  al
giudice  nazionale  di  applicare  la  normativa.  interna  con  esse
reputata incompatibile. 
    La Corte ha respinto tale impostazione sulla base di una puntuale
ricostruzione dei  rapporti  tra  CEDU,  diritto  europeo  e  diritto
interno nella loro recente evoluzione: "... A tale proposito, occorre
quindi ricordare come l'art. 6 del Trattato sull'Unione europea,  nel
testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2,
che l'«Unione rispetta i diritti fondamentali  quali  sono  garantiti
dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta'  fondamentali  [...]  e  quali  risultano  dalle  tradizioni
costituzionali comuni degli Stati  membri,  in  quanto  principi  del
diritto comunitario». 
    In base a tale disposizione - che recepiva un indirizzo  adottato
dalla Corte di giustizia fin dagli anni settanta dello scorso  secolo
- tanto la CEDU quanto le «tradizioni  costituzionali  comuni»  degli
Stati  membri  (fonti  esterne   all'ordinamento   dell'Unione)   non
assumevano rilievo come tali, ma in quanto da  esse  si  traevano  «i
principi generali del diritto comunitario» che l'Unione era tenuta  a
rispettare. Sicche', almeno dal punto  di  vista  formale,  la  fonte
della tutela dei diritti fondamentali nell'ambito dell'Unione europea
era unica, risiedendo, per  l'appunto,  nei  «principi  generali  del
diritto comunitario», mentre la CEDU e le «tradizioni  costituzionali
comuni» svolgevano solo un ruolo 'strumentale' all'individuazione  di
quei principi. 
    Coerentemente questa Corte ha in modo specifico escluso che dalla
«qualificazione   [...]   dei   diritti   fondamentali   oggetto   di
disposizioni  della  CEDU  come   principi   generali   del   diritto
comunitario» - operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi  anche
dall'art. 6 del Trattato - potesse farsi discendere la  riferibilita'
alla CEDU del parametro di cui all'art. 11  Cost.  e,  con  essa,  la
spettanza al giudice comune del potere-dovere  di  non  applicare  le
norme interne contrastanti con la Convenzione (sentenza  n.  349  del
2007). L'affermazione per cui l'art. 11  Cost.  non  puo'  venire  in
considerazione rispetto alla CEDU, «non  essendo  individuabile,  con
riferimento alle specifiche  norme  convenzionali  in  esame,  alcuna
limitazione della sovranita' nazionale» (sentenza n.  188  del  1980,
gia' richiamata dalla sentenza n. 349 del 2007 succitata), non poteva
ritenersi, infatti, messa in discussione da detta qualificazione  per
un triplice ordine di ragioni. 
    In primo luogo, perche' «il Consiglio d'Europa,  cui  afferiscono
il sistema di tutela dei diritti dell'uomo disciplinato dalla CEDU  e
l'attivita' interpretativa di quest'ultima da parte della  Corte  dei
diritti dell'uomo di Strasburgo, e' una realta' giuridica, funzionale
e istituzionale,  distinta  dalla  Comunita'  europea  creata  con  i
Trattati di Roma del 1957 e dall'Unione europea oggetto del  Trattato
di Maastricht del 1992» (sentenza n. 349 del 2007). 
    In secondo luogo,  perche',  i  «principi  generali  del  diritto
comunitario di cui il  giudice  comunitario  assicura  il  rispetto»,
ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati  membri
e alla CEDU, «rilevano esclusivamente  rispetto  a  fattispecie  alle
quali tale diritto sia applicabile: in primis  gli  atti  comunitari,
poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine
le deroghe nazionali a norme comunitarie  asseritamente  giustificate
dal rispetto dei  diritti  fondamentali  (sentenza  18  giugno  1991,
C-260/89, ERT)»; avendo «la Corte di giustizia  [...]  precisato  che
non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel
campo di applicazione del diritto  comunitario  (sentenza  4  ottobre
1991,  C-159/09,  Society  for  the  Protection  of  Unborn  Children
Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299 /05, Kremzow)». 
    In terzo luogo e da ultimo, perche' «il rapporto tra  la  CEDU  e
gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa
materia una competenza comune attribuita alle (ne' esercitata  dalle)
istituzioni comunitarie, e'  un  rapporto  variamente  ma  saldamente
disciplinato da ciascun ordinamento nazionale» (sentenza n.  349  del
2007). 
    (...)  L'art.  6  del  Trattato  sull'Unione  europea  e'  stato,
peraltro, incisivamente modificato dal Trattato di  Lisbona,  in  una
inequivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di  protezione
dei diritti fondamentali. 
    Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al  paragrafo  1,  stabilendo
che l'«Unione riconosce i diritti, le liberta' e i  principi  sanciti
nella Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  del  7
dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che  ha  lo
stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue - per quanto
ora interessa - prevedendo, al paragrafo 2,  che  «l'Unione  aderisce
alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e
delle liberta' fondamentali»; per chiudersi, al paragrafo 3,  con  la
statuizione in forza della quale «i diritti  fondamentali,  garantiti
dalla Convenzione [...] e risultanti dalle tradizioni  costituzionali
comuni agli Stati membri, fanno  parte  del  diritto  dell'Unione  in
quanto principi generali». 
    Alla luce della  nuova  norma,  dunque,  la  tutela  dei  diritti
fondamentali nell'ambito dell'Unione europea deriva (o derivera')  da
tre  fonti  distinte:  in  primo  luogo,  dalla  Carta  dei   diritti
fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l'Unione «riconosce»  e
che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in  secondo  luogo,
dalla CEDU,  come  conseguenza  dell'adesione  ad  essa  dell'Unione;
infine,  dai  «principi  generali»,  che  -  secondo  lo  schema  del
previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato - comprendono i  diritti
sanciti dalla  stessa  CEDU  e  quelli  risultanti  dalle  tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri. 
    Si tratta,  dunque,  di  un  sistema  di  protezione  assai  piu'
complesso e articolato  del  precedente,  nel  quale  ciascuna  delle
componenti e' chiamata  ad  assolvere  a  una  propria  funzione.  Il
riconoscimento alla Carta Nizza  di  un  valore  giuridico  uguale  a
quello dei Trattati mira, in  specie,  a  migliorare  la  tutela  dei
diritti fondamentali nell'ambito del sistema dell'Unione, ancorandola
a un testo scritto, preciso e articolato. 
    Sebbene la Carta «riafferm[i]», come si legge  nel  quinto  punto
del relativo preambolo, i diritti derivanti (anche e  proprio)  dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla  CEDU,  il
mantenimento di  un  autonomo  richiamo  ai  «principi  generali»  e,
indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla CEDU,
si giustifica - oltre che a fronte dell'incompleta accettazione della
Carta da parte di alcuni degli Stati membri (...) - anche al fine  di
garantire un certo grado di elasticita' al sistema. Si tratta, cioe',
di evitare  che  la  Carta  'cristallizzi'  i  diritti  fondamentali,
impedendo alla Corte  di  giustizia  di  individuarne  di  nuovi,  in
rapporto all'evoluzione delle fonti indirettamente richiamate. 
    A sua volta, la prevista adesione dell'Unione europea  alla  CEDU
rafforza la protezione dei diritti umani, autorizzando  l'Unione,  in
quanto tale, a sottoporsi a un sistema internazionale di controllo in
ordine al rispetto di tali diritti". 
    Tutto cio' premesso, la Corte ha pero' escluso di poter  accedere
alla tesi di un'immediata e diretta  "prevalenza"  (nel  senso  sopra
precisato) delle norme della CEDU sulle norme  interne:  "...  Nessun
argomento in tale direzione  puo'  essere  tratto,  anzitutto,  dalla
prevista adesione dell'Unione europea  alla  CEDU,  per  l'assorbente
ragione che l'adesione non e' ancora avvenuta. 
    A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del
paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo  stato,
ancora improduttiva di effetti. 
    La puntuale identificazione di essi dipendera'  ovviamente  dalle
specifiche modalita' con cui l'adesione stessa verra' realizzata. 
    (...) Quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel  paragrafo
3 del medesimo art. 6 - secondo cui i diritti fondamentali  garantiti
dalla  Convenzione  «e  risultanti  dalle  tradizioni  costituzionali
comuni agli Stati membri  fanno  parte  del  diritto  dell'Unione  in
quanto principi  generali»  -  si  tratta  di  una  disposizione  che
riprende, come gia' accennato, lo schema del previgente  paragrafo  2
dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea: evocando, con cio', una
forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona. 
    Restano, quindi,  tuttora  valide  le  considerazioni  svolte  da
questa  Corte  in  rapporto  alla  disciplina   anteriore,   riguardo
all'impossibilita', nelle materie cui non sia applicabile il  diritto
dell'Unione  (...),  di  far  derivare  la  riferibilita'  alla  CEDU
dell'art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti  fondamentali  in
essa riconosciuti come «principi generali»  del  diritto  comunitario
(oggi, del diritto dell'Unione). Le variazioni apportate  al  dettato
normativo -  e,  in  particolare,  la  sostituzione  della  locuzione
«rispetta» (presente nel vecchio testo dell'art. 6 del Trattato)  con
l'espressione «fanno parte» - non sono, in effetti, tali da intaccare
la validita' di tale  conclusione.  Come  sottolineato  nella  citata
sentenza n. 349 del 2007, difatti, gia' la precedente  giurisprudenza
della Corte di giustizia - che la statuizione in  esame  e'  volta  a
recepire - era costante nel  ritenere  che  i  diritti  fondamentali,
enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni  agli
Stati membri, facessero «parte integrante» dei principi generali  del
diritto comunitario di cui il  giudice  comunitario  era  chiamato  a
garantire  il  rispetto  (ex  plurimis,  sentenza  26  giugno   2007,
C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29). 
    Rimane, percio', tuttora  valida  la  considerazione  per  cui  i
principi  in  questione  rilevano   unicamente   in   rapporto   alle
fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell'Unione)
e' applicabile, e non anche  alle  fattispecie  regolate  dalla  sola
normativa nazionale. 
    (...) Quest'ultimo rilievo e' riferibile,  peraltro,  anche  alla
restante  fonte  di  tutela:  vale  a  dire  la  Carta  dei   diritti
fondamentali, la cui equiparazione ai Trattati  avrebbe  determinato,
secondo la parte  privata,  una  «trattatizzazione»  indiretta  della
CEDU, alla luce della 'clausola di equivalenza' che figura  nell'art.
52, paragrafo 3, della Carta. In base a tale  disposizione  (compresa
nel titolo VII, cui l'art. 6, paragrafo 1, del Trattato  fa  espresso
rinvio ai fini dell'interpretazione dei diritti, delle liberta' e dei
principi stabiliti dalla Carta), ove quest'ultima  «contenga  diritti
corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  il
significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli  conferiti
dalla suddetta Convenzione» ferma restando la  possibilita'  «che  il
diritto  dell'Unione  conceda  una  protezione  piu'   estesa»).   Di
conseguenza - sempre secondo la parte privata -  i  diritti  previsti
dalla CEDU che trovino un 'corrispondente' all'interno della Carta di
Nizza (...) dovrebbero ritenersi ormai tutelati anche  a  livello  di
diritto dell'Unione europea. 
    A prescindere da ogni ulteriore considerazione, occorre  peraltro
osservare come - analogamente a quanto e' avvenuto in  rapporto  alla
prefigurata adesione  dell'Unione  alla  CEDU  (ad  6,  paragrafo  2,
secondo  periodo,  del  Trattato  sull'Unione  europea;  art.  2  del
Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a  detta  adesione)  -  in
sede di modifica del Trattato si sia inteso  evitare  nel  modo  piu'
netto che l'attribuzione alla Carta di  Nizza  dello  «stesso  valore
giuridico dei trattati» abbia effetti sul  riparto  delle  competenze
fra Stati membri e istituzioni dell'Unione. 
    L'art. 6, paragrafo 1, primo  alinea,  del  Trattato  stabilisce,
infatti, che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo
le competenze dell'Unione definite nei trattati». A  tale  previsione
fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove  si
ribadisce che «la Carta non  estende  l'ambito  di  applicazione  del
diritto dell'Unione al  di  la'  delle  competenze  dell'Unione,  ne'
introduce competenze nuove o compiti nuovi dell'Unione, ne'  modifica
le competenze e i compiti definiti dai trattati». 
    I  medesimi  principi  risultano,  peraltro,  gia'  espressamente
accolti dalla  stessa  Carta  dei  diritti,  la  quale,  all'art.  51
(anch'esso  compreso  nel  richiamato  titolo  VII),  stabilisce,  al
paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta  si  applicano
alle istituzioni, organi e organismi  dell'Unione  nel  rispetto  del
principio  di   sussidiarieta',   come   pure   agli   Stati   membri
esclusivamente nell'attuazione  del  diritto  dell'Unione»;  recando,
altresi', al paragrafo 2, una statuizione  identica  a  quella  della
ricordata Dichiarazione n. 1. 
    Cio' esclude, con ogni evidenza, che  la  Carta  costituisca  uno
strumento di tutela dei  diritti  fondamentali  oltre  le  competenze
dell'Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato  la
Corte di giustizia, sia prima (tra  le  piu'  recenti,  ordinanza  17
marzo 2009, C-217/08, Mariano)  che  dopo  l'entrata  in  vigore  del
Trattato di Lisbona (sentenza 5  ottobre  2010,  C-400/10  PPU,  McB;
ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri). 
    Presupposto di applicabilita' della Carta di  Nizza  e',  dunque,
che la fattispecie sottoposta all'esame del giudice sia  disciplinata
dal diritto europeo - in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti
e  comportamenti  nazionali   che   danno   attuazione   al   diritto
dell'Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato  membro
per una misura nazionale  altrimenti  incompatibile  con  il  diritto
dell'Unione - e non gia' da sole norme nazionali prive di ogni legame
con tale diritto. 
    Nel caso di specie (...) detto  presupposto  difetta:  la  stessa
parte  privata,  del  resto,  non  ha  prospettato  alcun   tipo   di
collegamento tra il thema decidendum del  giudizio  principale  e  il
diritto dell'Unione europea. 
    (...) Alla luce delle  considerazioni  che  precedono,  si  deve,
dunque, conclusivamente  escludere  che,  in  una  fattispecie  quale
quella oggetto del giudizio principale, il  giudice  possa  ritenersi
abilitato a non applicare, omisso medio, le  norme  interne  ritenute
incompatibili con l'art. 6, paragrafo 1, della CEDU,  secondo  quanto
ipotizzato dalla parte privata. 
    Restano, per converso, pienamente attuali i principi al  riguardo
affermati da questa Corte a partire dalle sentenze n. 348 e  349  del
2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla Corte stessa
anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1
del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010) (...)". 
    14.3. Questi principi sono stati, ancora in tempi molti  recenti,
ribaditi dalla Corte costituzionale in successiva pronuncia (sent. 18
luglio 2013, n. 210). 
    15. Orbene, con riguardo alla fattispecie che qui  occupa  questa
Sezione, alla luce dell'evidenziata  impossibilita'  di  procedere  a
diretta disapplicazione della  norma  nazionale  (non  essendo  stato
evidenziato, da nessuna delle parti dei giudizi, alcun legame tra  la
vicenda relativa all'indennizzo da eccessiva durata del processo e il
diritto dell'Unione europea), reputa rilevante e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  3,
comma 7, della legge 24 marzo 2001, n.  89  (il  quale,  come  detto,
recita:  "...  L'erogazione  degli  indennizzi  agli  aventi  diritto
avviene nei limiti delle risorse  disponibili"),  per  contrasto  con
l'art. 117,  comma  1,  Cost.  per  tramite  della  norma  interposta
costituita  dall'art.  6,  par.  1,  della  CEDU,  come  interpretato
dall'ormai costante giurisprudenza della Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    15.1. Quanto al primo profilo, e' evidente che la possibilita' (o
meno) di considerare la mancanza di risorse disponibili  in  bilancio
quale    legittimo    impedimento    all'immediata     corresponsione
dell'indennizzo da eccessiva durata del processo incide sul  giudizio
da dare, ai fini dell'applicazione della penalita'  di  mora  di  cui
all'art. 114, comma 4, lettera e), cod.  proc.  amm.,  in  ordine  al
carattere giustificato o meno del  ritardo  dell'Amministrazione  nel
dare esecuzione al giudicato che si sia  formato  sulla  condanna  al
pagamento del predetto  indennizzo:  infatti,  la  norma  processuale
teste' citata stabilisce espressamente che  l'astreinte  puo'  essere
applicata "salvo  che  cio'  sia  manifestamente  iniquo,  e  se  non
sussistono altre ragioni ostative". 
    In altri termini,  ove  mai  si  ritenesse  legittima  e  tuttora
applicabile la disposizione ex art. 3, comma 7, della legge n. 89 del
2001 cio' escluderebbe, con ogni probabilita', la stessa possibilita'
di applicare la penalita'  di  mora  de  qua  all'Amministrazione  la
quale, condannata al pagamento di un indennizzo da  eccessiva  durata
del processo, alleghi e comprovi che il ritardo  nell'ottemperare  al
decisum  giurisdizionale  e  ascrivibile  alla  indisponibilita'   in
bilancio di risorse, essendo difficile negare  che  tale  circostanza
integri valida "ragione ostativa" all'immediata esecuzione. 
    15.2. Sul versante del merito, e' conclamato il contrasto fra  la
disposizione interna e l'ormai consolidata interpretazione  dell'art.
6, par. 1, della CEDU fatta propria dalla  Corte  di  Strasburgo,  la
quale per quanto qui interessa si concreta in due principi specifici: 
        a) il tempo occorrente per  conseguire  l'esecuzione  di  una
decisione di condanna al pagamento  di  un  indennizzo  da  eccessiva
durata del processo, specie se  costringe  l'interessato  a  proporre
un'azione esecutiva, fa  parte  a  tutti  gli  effetti  del  processo
stesso, e quindi va computato ai fini del  rispetto  da  parte  dello
Stato del diritto  fondamentale  alla  durata  ragionevole  dell'iter
processuale; 
        b) la carenza di risorse disponibili, piu' o meno  temporanea
che sia, non costituisce ex  se  idoneo  fattore  giustificativo  del
ritardo dello Stato nel dare esecuzione alle  decisioni  di  condanna
qui in discorso. Al contrario, la disposizione  di  cui  al  comma  7
dell'art. 3 della legge n. 89 del 2001, laddove impone  l'obbligo  di
corresponsione   dell'indennizzo   "nei    limiti    delle    risorse
disponibili", si pone certamente in traiettoria  divergente  rispetto
ai principi appena richiamati: infatti, anche a non  volerne  sposare
una lettura "radicale"  secondo  cui  l'indisponibilita'  di  risorse
esonererebbe addirittura in  toto  l'Amministrazione  degli  obblighi
rivenienti dal giudicato di condanna, tale  circostanza  quanto  meno
precluderebbe di qualificare in termini di inadempimento - e, quindi,
di condotta a qualsiasi titolo sanzionabile - il ritardo piu' o  meno
lungo nell'ottemperare che sia  dovuto,  per  l'appunto,  a  siffatta
indisponibilita'. 
    15.3. Ne' e' possibile comporre il contrasto teste'  evidenziato,
come vorrebbero le parti appellate nei presenti  giudizi,  attraverso
un'interpretazione "adeguatrice" della norma interna tale da renderla
compatibile con i principi discendenti dalla CEDU. 
    In particolare, gli odierni appellati assumono che  sulla  scorta
della gia' richiamata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nella
parte in cui ha equitativamente fissato in sei mesi il termine  oltre
il  quale  il  ritardo  nella  corresponsione  dell'indennizzo   puo'
qualificarsi non piu' giustificato, sarebbe predicabile  una  lettura
dell'art. 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001  nel  senso  che  le
risorse necessarie per l'erogazione  dell'indennizzo  debbono  essere
reperite e rese disponibili dall'Amministrazione entro sei  mesi  dal
passaggio in giudicato della decisione di condanna. 
    Tuttavia,  la  Sezione  ritiene  che  una  tale   operazione   di
"ortopedia" della previsione normativa vada ben oltre i limiti  della
normale attivita' ermeneutica,  finendo  non  gia'  per  ricavare  un
significato fra i tanti astrattamente possibili del precetto, ma  per
costruire una vera e propria nuova disposizione,  sostituendo  quella
che  e'  una  mera  indicazione  di  possibili  condizioni   ostative
all'immediata corresponsione dell'indennizzo con la previsione di  un
onere di reperimento dei fondi a carico  dell'Amministrazione  (oltre
tutto, con fissazione di un termine perentorio). 
    Quanto sopra appare  confermato  dalla  circostanza  che  mai  la
giurisprudenza che si e'  occupata  del  problema,  ivi  comprese  le
sentenze oggetto degli  appelli  qui  all'esame,  ha  ipotizzato  una
siffatta esegesi della norma interna,  ragionando  invece  sempre  in
termini di irriducibile contrasto fra essa e i principi  della  CEDU,
nonche'  -  se  del  caso  e,  come  si  e'  visto,  in  maniera  non
condivisibile - di "disapplicazione" della prima. 
    15.4. Ai rilievi fin qui svolti puo' aggiungersi, richiamando  la
giurisprudenza costituzionale cui si e' sopra fatto riferimento,  che
nel caso di specie, oltre al conflitto tra fonte interna e  CEDU  nel
senso  appena  precisato,  ricorre  anche   l'ulteriore   presupposto
dell'esistenza di  un  diverso  parametro  costituzionale  sul  quale
sarebbe astrattamente possibile fondare la legittimita'  della  norma
interna; in altri termini, potrebbe ricorrere proprio una  di  quelle
situazioni "eccezionali", che soltanto  la  Corte  costituzionale  e'
abilitata  a  individuare,  in  cui  l'esistenza  di   un   principio
fondamentale  del  diritto  interno,  di  rango  costituzionale,   e'
suscettibile di escludere l'idoneita' della previsione della  CEDU  a
fungere da "norma interposta" del parametro ex  art.  117,  comma  1,
Cost. 
    E' noto, infatti, che con la legge costituzionale 20 aprile 2012,
n.  1,  l'art.   81   della   Costituzione   e'   stato   modificato,
introducendovi la  regola  dell'equilibrio  di  bilancio  (comma  1),
prevedendo  il  ricorso   all'indebitamento   solo   in   circostanze
eccezionali  e  in  presenza  di  un  iter  rafforzato  (comma  2)  e
introducendo  una  fonte  normativa  del  pari  "rinforzata"  per  la
definizione delle regole e dei criteri  generali  della  legislazione
sul bilancio pubblico (comma 6). 
    Come noto, e come e'  dato  evincere  dalla  lettura  dei  lavori
parlamentari a monte della riforma  costituzionale,  quest'ultima  e'
stata resa necessaria dalla necessita' di assicurare il rispetto  dei
vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia  all'Unione  europea,
al fine di garantire il mantenimento negli Stati membri di livelli di
disavanzo e debito predefiniti a livello europeo; tali  obiettivi  si
e' ritenuto di perseguire,  oltre  che  con  l'introduzione  di  piu'
incisivi controlli a livello dell'Unione europea gia' nella  fase  di
formazione del bilancio annuale, prevedendo un complesso di regole  e
meccanismi atti ad assicurare il monitoraggio costante  del  bilancio
nella sue varie articolazioni (anche in relazione ai diversi  settori
dell'amministrazione  pubblica),  la   verifica   preventiva   e   la
valutazione di ciascun impegno di spesa in relazione alla  necessita'
di mantenere l'equilibrio tra poste attive e passive, e in definitiva
il tendenziale perseguimento di tale equilibrio in  via  ordinaria  e
costante, salvo per ipotesi eccezionali e temporalmente delimitate. 
    Esiste dunque un complesso di principi, di rango costituzionale e
comunitario,  in  virtu'  dei  quali   ben   potrebbe   astrattamente
predicarsi    l'illegittimita'    di    una    regola    di    valore
sub-costituzionale - quale e', secondo il costante orientamento della
Corte costituzionale, il valore delle norme della CEDU - alla stregua
della quale  affermare  l'obbligo  dell'Amministrazione  di  reperire
sempre  e  in  qualsiasi  momento,  se  necessario  anche  attraverso
variazioni  di  bilancio,  le  risorse  finanziarie   necessarie   ad
assolvere agli obblighi  indennitari  derivanti  dalle  decisioni  di
condanna per eccessiva durata del processo ai sensi della legge n. 89
del 2001. 
    Al contrario, e' noto che per l'assolvimento dei  detti  obblighi
e' stabilita in bilancio un'apposita voce basata, come per  tutte  le
altre voci di spesa, su una previsione approssimativa  dell'ammontare
complessivo delle somme che lo  Stato  sara'  chiamato  a  erogare  a
seguito delle condanne subite nel periodo finanziario di  riferimento
(stima la quale  verosimilmente  si  fonda  sul  valore  medio  delle
condanne riportate negli analoghi periodi immediatamente precedenti e
su altri elementi presuntivi); ma  il  problema  nasce  nell'ipotesi,
tutt'altro che infrequente nella pratica, in cui le  somme  stanziate
in bilancio si rivelino insufficienti a coprire il debito complessivo
riveniente dalle condanne de quibus. 
    Risulta del tutto evidente, pertanto, come debba  essere  rimessa
esclusivamente alla Corte costituzionale la valutazione in ordine non
solo alla compatibilita' fra l'art. 3, comma 7, della legge n. 89 del
2001 e l'art. 6, par. 1, della CEDU (nel senso piu' volte precisato),
ma anche - una volta verificato il conflitto tra le  due  fonti  -  a
quale delle due debba effettivamente prevalere, stante  il  descritto
quadro normativo di riferimento costituzionale e comunitario. 
    16. Per le ragioni dianzi  esposte,  questa  Sezione  solleva  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 7,  della
legge 24 marzo 2001, n. 89, in relazione all'art. 117, comma 1, della
Costituzione, per tramite della norma interposta costituita dall'art.
6, comma 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 
    17. Il presente  giudizio  va  quindi  sospeso  in  attesa  della
decisione della Corte costituzionale; ogni ulteriore  statuizione  in
rito, nel merito e in ordine alle spese del giudizio viene  riservata
alla decisione definitiva.